Sono cambiati gli equilibri. Ormai lontani i tempi in cui il day one di lancio di una nuova console arrivava dopo mesi di preparazione spirituale ed economica e tu eri una figura mitologica più evoluta di quello che oggi chiamano tristemente “early adopter”, eri quello che la console l’aveva presa di “importazione parallela”, l’avevi fatta arrivare dal giappone. Ed oltre ad averci speso 6 mesi di stipendio ti saresti sobbarcato tutte le beghe da lì in avanti che giocatelo, per esempio, ShenMue in giapponese. O facevi così o ti toccava adeguarti ad un mercato europeo ancora acerbo e aspettare mesi per l’arrivo ufficiale, sempre che qualcuno si fosse degnato di importarla, la console specifica. Mica come oggi che PS4 è uscita prima da noi che in giappone.
E com’era la vita del precursore dei tempi? Dava le sue piccole gioie, dispensava dolorosissime inculate. Torniamo un attimo al Dreamcast, avendo appena accennato alla personale esperienza giapponese legata a ShenMue; una console che accompagnò il più grande passaggio generazionale, che introdusse idee e progetti ancora oggi vivi nei nostri sistemi casalinghi, che segnò contemporaneamente apice e declino di Sega. Per chi ha vissuto il periodo, la miglior console di sempre. Ma anche ‘sticazzi, se volete le emozioni di quei mesi leggetevi Mattia Ravanelli e provate a carpirne le sensazioni e il background, tutto il mio preambolo porterà a parlare di tette e culi, non è proprio il luogo questo per fare dell’amarcord.
Dunque Dreamcast tanta roba, vanta una libreria di tutto rispetto, vengono pubblicati ancora oggi giochi da parte di produttori indipendenti. Ma al lancio? Nei primi mesi di vita non è che ci fosse tanto da gioire, con Sonic e Power Stone a reggere da soli la brama ludica di chi voleva spremere ogni BIT dalla sua nuova console. Una situazione che avrebbe spinto anche i più stoici a commettere errori di cui pentirsi a vita, tipo acquistare Godzilla o peggio, Blue Stinger. Import giapponesi. Col senno di poi soldi che se investiti nella tratta di prostitute rumene, avrebbero garantito un futuro roseo. Invece no, Godzilla e Blue Stinger.
Dopo essere caduto nel baratro più profondo della giocabilità brutta appare dunque come un miraggio l’arrivo di un’esclusiva dal titolo pomposo, di un porting “arcade perfect” legato ad uno dei marchi famosi di Sega. Neanche da dubitare sull’acquisto a scatola chiusa, fanculo le recensioni! Preordine immediato che lo vuoi a casa subito, il giorno stesso del lancio in giappone. Già ti tremano le mani e non vedi l’ora di sparare in testa alle orde di Zombie che ti si pareranno davanti!
THE HOUSE OF THE DEAD 2
Non farti abbindolare dal titolo in grassetto, questo articolo non fa parte della rinomata sezione Containerd dal titolo “effetto seppia“; siamo ancora nella prefazione, la recensione vera arriverà fra un attimo. Bello House of the Dead; gioco intrigante, discretamente realizzato, divertente. Sega ci ha abituato a cose del genere, in fondo era maestra nel realizzare cabinati mangiasoldi e di esperienza da Virtua Cop in avanti ne aveva guadagnata un po’. Non un titolo perfetto, sicuramente un’altra categoria rispetto alle cacate citate prima. MA! Allo sprovveduto te stesso del 1999 lasciava comunque quella spiacevole sensazione di emorroide esplosa. Forse perché pareva bello se paragonato a Godzilla ma a conti fatti era anche per i tempi un titolo mediocre. Tipo un 7 se credi nelle recensioni a voti, probabilmente un 95 sul numero di Consolemania di quei tempi. Magari perché per giocarlo per bene ti sei comprato il “BUNDURU” con la pistola. Più probabilmente perché 220.000 lire (di quando c’erano le milalire) per un’ora di gioco, erano un po’ troppine. Eppure puoi biasimare solo te stesso, che è dai tempi del Commodore 64 e di Operation Wolf che giochi con gli Arcade FPS. Ti sei comprato Sunset Riders convertito male per Snes. Hai speso dei bei soldi nei cabinati di Time Crisis e Virtua Cop. Sei pure a conoscenza del fatto che la vera killer application di 3DO e CD-i fu il porting fedele di Mad Dog McCree.
Come dicevo in apertura, sono cambiati gli equilibri. Il Giappone, in campo videoludico, sembra aver perso la rotta, complice anche la concorrenza mondiale (basta vedere cosa ti riesce a fare un manipolo di Polacchi, per dire). Le sale giochi, almeno da noi, sono ridotte ad oscuri ritrovi di vecchi che si vanno a giocare la pensione alle macchinette, in cerca del colpo facile che permetta di guadagnare abbastanza per assoldare un killer e fare fuori la moglie. I giochi indie spesso tengono banco e un nuovo mercato, quello dei giochi di merda per tablet e smartphone, ha cambiato alcune regole. Alcuni generi muoiono, altri nascono.
Se è vero che ho appena citato una serie di titoli che vanno dall’orrido al mediocre (tranne Sunset Riders, capolavoro), è comunque anche vero che sono esponenti di un genere che ci ha regalato alcuni momenti divertenti. Con tutti i sui limiti era comunque qualcosa su cui potevi contare per variare l’esperienza fra un picchiaduro, un RPG e… un altro picchiaduro. Erano titoli da sala che andavano bene per quell’ambiente e meno per quello casalingo, ma alle softco costava nulla fare delle conversioni. Abbiamo perso un genere e quanto di buono ci ha regalato, ma c’è ancora qualcuno che un po’ ci crede, che vuole scommettere in quella direzione e aggiungere elementi intriganti per attrarre i giocatori. Ed ora, la recensione…
Gal*Gun: Double Peace
Hahahahaha! La vedo la tua faccia, ora! Hai letto l’introduzione che, per quanto scritta malamente, potrebbe averti portato a pensare ad un approfondimento sulla situazione attuale del mercato, sul destino di alcuni generi videoludici, sul futuro visto da chi ti può citare le esperienze di quarant’anni da videogiocatore. E invece no! Tutto per parlare di un gioco di donnine mezze nude!
Gal*Gun: Double Peace è pieno esponente del genere Arcade FPS (o sparatutto su binari) senza l’enfasi del successo da sala giochi o un grande produttore alle spalle. Quindi punta tutto sugli elementi di forza distintivi. Tipo Giocabilità e Originalità, doti abilmente nascoste fra tette, culi e intimo femminile. La storia è una delle più banali, tipica dei Dating Sim giapponesi; impersonando il tipico studente giapponese verremo travolti dagli eventi durante gli esami di un angelo e un demone che, putacaso, si svolgono proprio all’interno della nostra scuola. Storia lunga fatta breve, improvvisamente tutte le ragazze dell’istituto tenteranno di abusare di noi e l’unico modo che avremo per avanzare nella nostra missione e trovare il vero amore passerà per l’elargizione di “euforia” a tutte le zoccolette che ci si pareranno davanti.
A piombarci addosso saranno diversi tipi di ragazze, attratte dalle nostre caratteristiche; per questo motivo ad inizio avventura dovremo prestare molta attenzione all’orientamento che decideremo di dare al protagonista della storia, a scelta fra “acculturato” e “assiduo lettore di Containerd” (con tutte le sfumature che si possono trovare nel centro). Per fermarle dovremo utilizzare il mirino a schermo per imbottirle di feromoni, sparando su di loro a casaccio, colpendole nei “punti deboli” oppure utilizzando mosse speciali ad alto potenziale di perversione.
Il gioco si comporta come i più classici di genere, indirizzando il nostro alter ego su una via prestabilita e lasciando a noi giocatori unicamente il compito di mirare e sparare. Con qualche piccola aggiunta. Utilizzando l’utile modalità zoom sarà infatti possibile vedere attraverso alcune infrastrutture, alla ricerca di collezionabili o altro. In realtà la cosa più importante di questa abilità è la possibilità di scandagliare le misure di tutte le ragazze, come di godere del loro intimo in trasparenza fra i vestiti indossati. Se non è qualità questa!
Di tanto in tanto ci verrà data la possibilità di scegliere quale strada prendere, come anche di chi innamorarci da un certo punto del gioco in avanti. Sebbene portare a termine la storia principale sia un’operazione alquanto veloce e semplice, grazie agli elementi appena descritti viene garantita un’altissima rigiocabilità.
Gal*Gun: Double Peace è insomma un buon Arcade FPS che ci regala dal primo secondo di gioco quello che promette; divertimento, perversione e svago. E giocarlo e rigiocarlo è divertente quanto portare a termine un “House of the Dead” qualsiasi, solo che piuttosto che puntare al massimo del punteggio qui si mira a godere di tutte le scene di intermezzo e le reazioni differenti che le studentesse avranno verso di noi. Concludendo, evviva il fan service quando serve a mantenere in vita un genere morente, facendolo in modo più che discreto. Ovviamente scrivo oggi di questo gioco solo perché è in offerta fino a fine mese su PS Store. Col senno di poi avrebbe meritato da prima tutte le mie sporcellose attenzioni.
ATTENZIONE! Esiste anche la limited edition con tanto di mutandine!